IL MONUMENTO AI CADUTI

IL MONUMENTO AI CADUTI

Quella volta che la riappacificazione finì in Parlamento, con richiesta di rimozione dell’opera

«Il Comitato, esaurito il suo compito istitutivo, ha ora idealmente consegnato alla popolazione ed alle famiglie dei Caduti l’invidiata e ammirata costruzione, con la certezza e il monito che nessuno, sui nostri morti e sulle nostre lacrime possa fare alcuna speculazione politica o di parte».

Lo scriveva Mario Dell’Eva sul 3° numero di Col Maòr dell’anno 1967, uscito dopo l’inaugurazione del monumento ai Caduti.

Siamo nel ’67, sono passati 22 anni dalla fine della guerra, pochi nell’orizzonte degli storici e anche per chi, da una parte e dall’altra, ha ancora le ferite sanguinanti lasciate dalla II^ Guerra mondiale.

E tuttavia, Mario Dell’Eva e il Comitato riescono a realizzare – probabilmente per primi nell’Italia del dopoguerra – quell’operazione di riappacificazione quasi impossibile per gli anni in cui viene attuata, a ridosso della Guerra fredda e con i due blocchi, il Patto Atlantico e il Patto di Varsavia, che si spiavano, e con le testate nucleari pronte al lancio.

Ma vediamo quello che successe.

Già all’inizio del 1964 Col Maòr anticipa la costituzione di un comitato con il compito di erigere il monumento. Il 29 giugno del ’65 si tiene la riunione di un’ottantina di capi famiglia, chiamati a collaborare al progetto.

Nasce quindi il comitato formato da una cinquantina di persone presieduto dal sindaco di Belluno Annibale De Mas.

Il monumento ai caduti di Salce

Il 3 luglio 1965 Mario Dell’Eva, in qualità di segretario del Comitato, invia una lettera indirizzata “A tutte le famiglie dei Caduti in guerra per eventi bellici e dispersi”.

Una formula ideata per coinvolgere tutti, partigiani e fascisti, che persero la vita. Dell’Eva, in sostanza, raccoglie prima il consenso di tutte le famiglie di Salce, dopodiché comunica i nomi di “quei Caduti che all’atto del decesso appartenevano alla Parrocchia di Salce” e che verranno incisi sulla targa in bronzo ai piedi del monumento.

A metà del ’65 i fondi raccolti per l’opera, donati dalle famiglie ammontano a 800 mila lire. I lavori possono iniziare, e il Monumento ai Caduti della I^ e della II^ Guerra mondiale prende forma. Ma non senza polemiche, come vedremo.

In poco più di un anno il monumento è pronto. Domenica 2 aprile 1967 si tiene la cerimonia d’inaugurazione. “Salce ha ricordato ieri i suoi caduti in guerra – scrive il Gazzettino del lunedì – E lo ha fatto con una semplice cerimonia che ha però avuto momenti di intensa suggestione, specialmente quando la bandiera tricolore che ricopriva il monumento è caduta per lasciar vedere nella loro lineare bellezza le strutture disegnate dal perito edile Giovanni Dal Pont”.

Il discorso ufficiale è tenuto dall’onorevole Colleselli. Il parroco don Goachino Belli impartisce la benedizione, mentre viene deposta una corona d’alloro e le autorità prendono posto sul palco a fianco del monumento.

Erano presenti il sindaco De Mas, il viceprefetto Brunetti, il comandante della Brigata Cadore, Caruso, il dottor Terrando per il presidente del Tribunale, il questore Virgilio, e i rappresentanti delle associazioni combattentistiche d’arma con gagliardetti e labari.

A rendere gli onori militari il picchetto del 7mo alpini, mentre la fanfara accompagna il coro di Salce nei canti ed inni patriottici.

Ad aprire il fuoco delle polemiche è L’Unità, quotidiano del Partito comunista, che il 4 aprile ’67 con un articolo a firma di Tina Merlin aggredisce l’opera di riappacificazione.

La giornalista bellunese, che qualche anno prima aveva firmato pezzi coraggiosi di grande giornalismo d’inchiesta sul Vajont (solo lei lo fece, il resto della stampa tacque sui rischi della diga) in questa circostanza, si scagliò pesantemente contro la scelta del Comitato di affiancare vincitori e vinti.

Ma la bordata d’artiglieria deve ancora arrivare. Alla cerimonia d’inaugurazione, oltre ai familiari dei Caduti, sono presenti i rappresentanti di tutte le parti in causa, quindi partigiani e fascisti.

E se 70 anni dopo, la vigilia del 25 aprile 2014, il prefetto di Pordenone vieta per motivi di ordine pubblico cantare
“Bella ciao” durante la cerimonia commemorativa (salvo poi rimangiarsi il provvedimento su ordine del ministro), non devono stupire i toni usati in quegli anni dal partigiano e antifascista, segretario della Federazione del Pci di Venezia e del Friuli Venezia Giulia, nonché onorevole Mario Lizzero detto Andrea nella seduta pomeridiana del 16 maggio 1967 in Parlamento, quando, come dicevamo in premessa c’erano ancora molte ferite sanguinanti.

Lizzero si rivolge ai ministri dell’Interno e della Difesa “Per sapere se siano a conoscenza del profondo turbamento tra le forze antifasciste e tra i residenti della provincia di Belluno dal carattere che si è voluto dare al monumento inaugurato a Salce.

Chiede di conoscere se risulti che sulla lapide siano accostati al nome di un eroico partigiano caduto (accanto ad altri dieci patrioti nel fatto d’armi di Ponte San Felice proprio a causa della delazione fascista), i nomi di numerose spie fasciste passate per le armi dai reparti partigiani. (…)

Chiede di conoscere se all’inaugurazione abbiano presenziato accanto a deputati, al sindaco, al questore, al viceprefetto ed altre autorità, accanto ad un plotone di alpini ed un picchetto armato, ex alti gerarchi della repubblichina di Salò e perfino un labaro denominato “Gruppo milizia”.

L’interrogazione si conclude con la richiesta di rimozione del Monumento.

Roberto De Nart per il Col Maòr n. 2/2014

 

 

Nella foto di copertina, il monumento ai caduti di Salce con la frase “Supremo Iddio benedici i nostri caduti, la terra che li accoglie, fa che tra gli uomini tutti regni la pace”.

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