I fusilâz de Çurçuvint

I fusilâz de Çurçuvint

La battaglia trentennale, per la riabilitazione dei 4 fucilati di Cercivento, di chi si batte per il loro onore e dice: “Ora è giunto il tempo della riabilitazione”

All’alba del 1 luglio 1916, quattro Alpini del Battaglione Monte Arvenis, 109ma Compagnia dell’8° Reggimento, vengono condannati a morte come “agenti principali” del reato di “rivolta in faccia al nemico” (art. 114 del Codice Penale Militare dell’Esercito del 1869) e fucilati dietro il cimitero del piccolo paese carnico di Cercivento (Udine).

Basilio Matiz

Sono il Caporale Maggiore Silvio Gaetano Ortis, di Naunina di Paluzza (UD), il Caporale Basilio Matiz, di Timau di Paluzza (UD), il Caporale Giovanni Battista Coradazzi, di Forni di Sopra (UD) e il soldato Angelo Primo  Massaro, di Maniago (PN).

Pochi giorni prima, il Battaglione aveva ricevuto l’ordine di attaccare di giorno le postazioni austriache appostate  sulla cima del Monte Cellon, a circa 2.200 metri di altezza, che da lì controllavano il Passo di Monte Croce Carnico.

Il Caporale Ortis (già  decorato nella Guerra di Libia del 1911), fa presente al sergente, vice comandante del suo plotone, che attaccare di giorno la posizione  austriaca, che era ben difesa con numerose mitragliatrici, sarebbe stato un suicidio. Propone di attaccare di notte, con l’aiuto della nebbia. Ne parla anche al Capitano Cioffi, comandante della Compagnia, ma anche lui non ascolta i suoi suggerimenti.

La sera del 23 giugno, numerosi Alpini si riuniscono in una baracca e decidono di disobbedire all’ordine di attaccare la cima del Monte Cellon. Una ottantina di  Alpini, tra i quali i quattro fucilati, che peraltro non erano presenti nella baracca la sera del 23 giugno, sono incriminati del gravissimo reato di “rivolta in faccia al nemico”.

 

Silvio Ortis

In verità, il reato contestato sarebbe dovuto essere quello di ammutinamento, in quanto non erano state usate armi. Gli Alpini incriminati sono portati nelle retrovie del fronte, nel paese di Cercivento, dove subiscono un rapido processo, davanti ad un Tribunale Straordinario, riunito nella chiesa di Cercivento.

Il Parroco, don Luigi Zuliani, per protesta porta fuori dalla Chiesa il Crocifisso. La Corte Marziale alle 3 del mattino del 1 luglio emette la sentenza di condanna a morte per Ortis, Matiz, Caradazzi e Massaro, sentenza subito eseguita, mediante fucilazione, nel campo retrostante il cimitero del paese.

Così, alle 4 del mattino del 1 luglio 1916 i 4 Alpini sono  portati sul luogo dell’esecuzione. I Carabinieri bloccano il sentiero che conduce al cimitero per evitare che altre persone assistano. Invece, nonostante sia ancora l’alba, ci sono in giro varie persone, soprattutto donne, che vanno a lavorare nei campi. Alcune si nascondono ed assistono alle drammatica scena della fucilazione. Il loro racconto servirà a ricostruire l’accaduto.

Angelo Massaro

I quattro Alpini sono legati alle sedie già posizionate nel prato e fermate con sassi. I tre caporali devono essere “degradati” per disonore, strappando ritualmente le mostrine,che però non cedono allo strappo e quindi sono tagliate con la baionetta. Il parroco di Cercivento, don Luigi Zuliani, supplica di  risparmiare le loro vite. Dice che vuole presentare la domanda di grazia alla Regina. Si offre anche di morire al posto dei 4 condannati, ma è  tutto inutile. Allora, piange e prega.

Il plotone di esecuzione, costituito da Regi Carabinieri in quanto i soldati si sono rifiutati, si schiera e fa fuoco. La scarica investe i quattro Alpini. Tre di loro muoiono subito. Invece, Matiz è ferito. E’ caduto a terra ed urla per il dolore e la  paura. E’ rimesso sulla sedia e di nuovo il plotone spara. Matiz non muore neppure ora. Allora, il comandante del plotone gli si avvicina e gli spara 3 colpi di pistola in testa. Sono quasi le cinque del mattino. Tutto si è concluso.

Un anziano abitante del paese, che ha assistito alla  scena da lontano, urla in dialetto friuliano: ”Vigliacchi di italiani, siete venuti solo a portare guerra qua! Abbiamo sempre mangiato con gli austriaci e mai con gli italiani, ed adesso venite ad ammazzare i nostri figli. Vigliacchi!”. Tutto è finito prima delle 5 del mattino.

I cadaveri dei fucilati sono sepolti in modo anonimo nel cimitero di Cercivento. I loro nomi non vengono annotati tra i caduti in guerra dell’8° Reggimento Alpini. Pochi giorni dopo la cima del Monte Cellon è conquistata da un’altra Compagnia del Battaglione Monte Arvenis, con un  attacco notturno e con la protezione della nebbia, come avevano suggerito gli alpini fucilati, catturando 9 Ufficiali e 156 soldati austriaci.

 
Giovanni Battista Coradazzi

All’inizio degli anni venti, la salma di Ortis fu trasferita nel cimitero di Udine all’insaputa dei familiari. La sorella Paolina chiese il  trasferimento della salma del fratello Silvio nel cimitero di San Daniele di Casteons. Le Autorità Militari autorizzarono il trasferimento, imponendo però che avvenisse con l’accompagnamento dei soli parenti e senza il suono della campana, però il Parroco del paese,  contravvenendo al divieto, fece fare tre rintocchi alle campana della Chiesa.

Il dilemma della “disobbedienza a un ordine evidentemente  errato” è stata una delle nozioni che più mi rimasero impresse durante il Corso AUC che frequentai nel 1982. Se già in tempi di pace la  questione è rovente, quando trattiamo di situazioni sul campo di battaglia in tempo di guerra non può che diventare ancor più pesante, a scapito del povero soldato, che si trova a dover eseguire ordini  che vanno spesso contro la logicità del nostro razocinio.

Nel corso della Prima guerra mondiale i tribunali militari italiani condannarono a  morte per diserzione e altri gravi reati circa 4000 soldati. Di questi, 750 furono effettivamente fucilati mentre per gli altri la pena venne  commutata. C’è poi tutta una zona grigia (se non un buco nero), sulla quale la ricerca storica ha ancora molto da dire.

Andando a scavare  negli archivi gli oltre 300 militari che furono “fatti fuori”, sommariamente, da ufficiali e sottufficiali che ne avevano il potere e che ritenevano che in quel dato momento il loro sottoposto stava compromettendo la riuscita di un’operazione se non la sicurezza del reparto, probabilmente verrebbero alla luce situazioni scabrose e illogiche, come illogica sempre è la guerra.

La circolare 3525 del comando  supremo affermava, ad esempio, che “deve ogni soldato essere certo di trovare, all’occorrenza nel superiore il fratello o il padre, ma deve  essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi” (tratta da Monticone,  op cit, pg pg 224). “L’aspetto più aberrante della giustizia penale in periodo di guerra fu quello delle esecuzioni sommarie, attuate sul campo  senza alcuna procedura o dopo una breve inchiesta indiziaria , talora per colpire forme anche lievi di indisciplina. (G. Procacci,  Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti 1993, p 24).

Così un numero imprecisato, nell’ordine delle centinaia, di  poveretti fu estratto a sorte e mandato davanti al plotone di esecuzione per non aver trovato il responsabile di qualche supposto reato. Ritenuti comunque corresponsabili. Fu una decimazione, specialmente con Caporetto, ma non solo.

Oggi, dopo un secolo dalla loro morte,  si sta forse e finalmente mettendo fine alla triste storia dei “fusilâz”, grazie all’impegno e alla caparbietà del pronipote di Silvio Ortis, Mario Flora, che dal 1988 combatte la sua battaglia personale per ridare l’onore e dare giustizia ai quattro condannati, e a tutti i processati.

“Era  una compagnia in gran parte formata da gente del posto – ha raccontato Flora – da soldati che conoscevano bene questi monti. Sapevano che il Cellon ha una parete liscia, da cui gli austriaci sparavano a vista, ed era inutile attaccare da lì. Gli alpini marciavano con gli ‘scarpets’  ai piedi, delle babbucce di panno di lana. Bisognava approfittare invece di un canalone laterale, che avrebbe permesso alla truppa di  prendere il nemico alle spalle. Niente da fare. Quel capitano, Armando Cioffi, voleva eseguire la famigerata ‘Circolare Cadorna’, il generale  che portò alla disfatta di Caporetto”.

A noi, Alpini del 2000, non resta che il dovere di ricordare per non dimenticare. Non dimenticare l’uomo  che è in noi, anche quando indossiamo una divisa e abbiamo davanti a noi un altro uomo, ma con “la divisa di un altro colore”. Non dimenticare che spesso non sono i gradi e lo status sociale che fanno la grandezza di un uomo, ma le sue idee e i suoi comportamenti.

E, infine, ma non per ultimo, ricordare quei poveri ragazzi (e con loro tutti quelli che subirono la stessa triste e ingiusta sorte) dando loro  finalmente il giusto riconoscimento per essere stati anche loro, come tutti i loro compagni, artefici della vittoria che portò l’Italia ad essere  quella nazione di cui oggi possiamo chiamarci figli, nella speranza che anche questi soldati siano considerati “caduti per la Patria”.

Michele Sacchet

(Articolo tratto dal ColMaòr n. 4 del 2016)

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