I furbetti dello Ius Sanguinis

I furbetti dello Ius Sanguinis

La Cittadinanza Italiana non è un diritto ereditario, è un’appartenenza

Ius Sanguinis, arriva il nuovo Decreto: fine di un’epoca o nuovo inizio per la cittadinanza italiana?

Da tempo si discute del senso profondo dell’essere cittadini italiani. Una cittadinanza che, per molti, è stata ridotta a semplice documento di viaggio, un lasciapassare per ottenere vantaggi economici o facilitazioni burocratiche in Europa.
Ma dietro a questo titolo nobile c’è molto di più: una storia, una cultura, una lingua, e un’appartenenza che non può essere svenduta o abusata.

Il nuovo Decreto dei Ministri sullo Ius Sanguinis, appena approvato, segna un cambio di rotta tanto atteso quanto discusso.
Una risposta – forse tardiva – a un fenomeno che negli anni è cresciuto senza controllo: la gestione, spesso opaca e truffaldina, della cittadinanza per discendenza italiana in particolare in Sudamerica, con un occhio puntato sul Brasile.

Un diritto o un mercato?

Chi conosce bene il tema sa che negli ultimi decenni si è creato un vero e proprio mercato della cittadinanza italiana, in cui soggetti senza scrupoli – definiti da molti “alligatori” – lucrano sulla burocrazia e sull’illusione di un diritto facile.
Agenzie, consulenti improvvisati e finti legali vendono la cittadinanza come fosse una merce, spesso inquinando il valore di un vincolo che dovrebbe essere prima di tutto culturale e identitario.

Non si tratta di negare la sofferenza e i sacrifici degli emigranti italiani. Nessuno dimentica il dramma degli italiani sbarcati in Brasile alla fine dell’Ottocento, attratti da false promesse e costretti a condizioni disumane nelle fazendas del San Paolo o nelle foreste del Rio Grande do Sul.
Ma dobbiamo essere onesti: non fu l’Italia a mandarli via, bensì il Brasile ad attirarli, spesso con obiettivi dichiaratamente razzisti e colonialisti.

Riparazione storica? Una lettura da rivedere

Si parla spesso di riparazione storica come base morale dello ius sanguinis, ma quanto regge davvero questa giustificazione?
I fatti storici raccontano che il Brasile, dopo aver emancipato gli schiavi con la Lei Áurea (1888), cercò di “sbiancare” la popolazione incentivando l’immigrazione europea.
Gli italiani, tra i più numerosi, accettarono le condizioni imposte, ignari di quello che li aspettava.

A questa politica si aggiunse poi la repressione culturale: durante il regime di Getúlio Vargas, gli italiani in Brasile furono perseguitati, vietato loro di parlare la propria lingua, e in alcuni casi internati come “nemici dello Stato”.
Le comunità italiane furono costrette a nascondere la propria identità per sopravvivere. Ma da allora sono passati oltre 80 anni.
È davvero credibile giustificare oggi la mancata conoscenza dell’italiano sulla base di questi eventi?

L’asimmetria tra Italia e Brasile

Il nuovo Decreto affronta anche un nodo fondamentale: la mancanza di reciprocità.
Mentre l’Italia concede cittadinanza a centinaia di migliaia di discendenti – anche a chi non ha mai messo piede nel nostro Paese – il Brasile ha storicamente mantenuto una legislazione molto più rigida nei confronti degli stranieri.

Basti pensare che, fino al 2017, vigeva in Brasile lo Statuto dello Straniero, che considerava l’immigrato esclusivamente in base alla sua utilità per lo Stato.
Le restrizioni erano pesanti: limiti al lavoro, agli investimenti, ai diritti politici e persino all’attività religiosa.
Ancora oggi, ottenere la cittadinanza brasiliana è un percorso lungo e selettivo: servono 15 anni di residenza, conoscenza della lingua portoghese, e una fedina penale impeccabile.

Il nuovo Decreto: cosa cambia?

Il decreto appena varato intende riformare il concetto stesso di ius sanguinis, reintroducendo alcuni criteri minimi di appartenenza culturale e linguistica.

Si prevede, ad esempio:
– la conoscenza base della lingua italiana (livello A2),
– una connessione dimostrabile con la cultura italiana (parentela documentata, ma anche percorsi di studio o coinvolgimento in enti italiani all’estero),
– un controllo più rigoroso sulle richieste, per evitare abusi e frodi.

Non è una chiusura, ma una selezione basata sul merito e sull’identità, non più sull’ancestralità pura. È il tentativo di ristabilire un equilibrio, di restituire valore a ciò che oggi sembra svilito: essere cittadini italiani non per convenienza, ma per reale senso di appartenenza.

Un nuovo inizio?

La misura potrà sembrare dura per alcuni, ma forse è l’unico modo per riprendere il controllo di un sistema fuori asse.
Come ha scritto il sindaco di Val di Zoldo Camillo De Pellegrin, con passione e lucidità: “Regaliamo la cittadinanza ai figli di Lula, ma a che pro? Qual è il beneficio per noi italiani?”.
È ora di chiederci cosa vogliamo davvero da chi desidera far parte della nostra comunità nazionale.
Basta con il cittadinificio: torniamo a dare significato alla parola “italiano”.

Michele Sacchet

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Nella foto di copertina:
Emigrati in nave vanno in Sud America (Foto William H. Rau)

 

 

 

 

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