ZOM, ZOM, ZU LA BELAMONTE

ZOM, ZOM, ZU LA BELAMONTE

Zom, zom, zu la Belamonte… Zom, zom, zu la Belamonte… zu la belamonte a restelar.”

Così recitava una vecchia canzone trentina evocando con goliardica allegria il periodo della fienagione in alta Val di Fiemme.

La località citata nella canzone, Bellamonte, appunto, così come altre del comprensorio di Fiemme quali Predazzo, Ziano, Cavalese, Varena ecc., e il tema stesso della canta, riportano alla mente di molte persone dai capelli grigi delle nostre zone alcuni ricordi della loro gioventù.

Erano i tempi in cui tosat e tosate della Valbelluna erano collocati durante la stagione agricola “a servir” o “fora par le spese” nei paesi del Tentino, presso famiglie di contadini a corto di manodopera.

Questo fenomeno migratorio  stagionale durò per circa un secolo a cavallo tra il 1870 e il 1950, coinvolgendo migliaia di persone prevalentemente di sesso femminile, provenienti, in particolare, dalle frazioni del Comune di Belluno e anche da Sedico, Sospirolo, Limana, Trichiana, Mel.

Le partenze avvenivano in primavera, tra Marzo e Aprile, e la stagione si concludeva sempre a date prestabilite coincidenti con determinate festività: Ai Santi (1° Novembre), a San Martino (11 Novembre) o, al massimo, a San Andrea (30 Novembre). La durata della stagione, così come le mansioni affidate, dipendevano dalla località di destinazione e dall’indirizzo agricolo di tali zone.

Nei paesi di fondovalle o di media collina dediti a forme di agricoltura più intensiva (considerato il periodo) e agli albori della viticoltura e frutticoltura, le stagioni erano più lunghe, mentre nelle località più elevate dove la manodopera veniva impiegata esclusivamente per la fienagione e il pascolo del bestiame, la richiesta ovviamente si concentrava nei mesi estivi.

Il viaggio di trasferimento poteva durare anche un paio di giorni e si svolgeva con diverse modalità: con il treno fino a Feltre, poi da qui a Primolano a piedi o con mezzi di fortuna e di nuovo in treno fino a Trento. Solo un centinaio di chilometri ma in quegli anni significava anche espatriare, ricordiamo infatti che fino al primo dopoguerra il Trentino apparteneva all’Impero Austro-Ungarico. In tempi più recenti fu istituito un servizio di trasporto su autocorriere, grazie alla pionieristica ditta Buzzatti di Bribano, del quale c’è ancora il vivo ricordo.

Inizialmente le donne che là si recavano venivano assunte, senza alcun contratto come serve stagionali ed erano poco più che ragazzine o giovani ancora nubili, ma poteva accadere che anche donne sposate fossero costrette dall’indigenza ad emigrare, ed esse allora portavano con sé i loro figli più grandicelli.

Pur assumendo un ruolo determinante per l’economia agricola di allora, non fu mai loro riconosciuto alcun merito ma subirono sempre, oltre che la condizione di sfruttate, anche umiliazioni e raggiri perpetuati loro approfittando del basso livello di istruzione.

Fu loro diffusamente attribuito l’appellativo di “ciòdeprobabilmente derivato dal fatto che avevano ai piedi zoccoli o calzature con la suola di legno chiodata (coi e dàlmede co sòt le broke) e così, per analogia, i bambini erano conosciuti come ciòdet e ciòdete.

Il sistema di reclutamento era del tipo cosiddetto “a cordata”, cioè basato sul passaparola diffuso e protratto nel corso degli anni lungo il filo dei rapporti interpersonali prima ristretti all’ambito familiare, poi allargato ai parenti, alle
conoscenze del paese, ecc.

Naturalmente la gratificazione economica era pressoché nulla, così come i reali benefici riportati alle famiglie d’origine, piuttosto, rappresentava spesso il viatico per successive esperienze migratorie più lunghe e redditizie.

Molte ragazze, infatti, dopo alcune stagioni da serve agricole in Trentino, percorrevano la strada, a volte definitivamente, che portava alle grandi città (Milano, Torino, Venezia) dove prendevano servizio come balie o domesti che presso le dimore di famiglie facoltose.

Per i ragazzini la situazione era un po’ diversa per diversi motivi, primo fra tutti l’inesistente aspettativa di retribuzione da parte di questi. Il fatto di ricevere un compenso per il lavoro svolto, anche se costituito da un misero regalo a fine stagione, (un fazzoletto colorato o un cappello di panno o un abito usato) rappresentava già un qualcosa di straordinario rispetto alla condizione propria famigliare che li vedeva, comunque, naturalmente obbligati a collaborare nei lavori, non solo gratuitamente, ma, a volte anche denigrati in quanto poco produttivi e quindi di peso.

La giovane età, inoltre, istintivamente trasmetteva ai datori di lavoro un naturale sentimento di inibizione verso il puro sfruttamento economico, favorendo anzi l’instaurarsi di rapporti di reciproco affetto che a volte perdurava anche successivamente alla conclusione del periodo di frequentazione.

I maschi più grandi venivano impiegati nella falciatura e nel governo del bestiame, i più piccoli conducevano al pascolo le manze o le capre. Le bambine si dedicavano alla raccolta del fieno e al rifornimento di cibo e acqua dei
falciatori. A volte veniva loro richiesto un aiuto nelle faccende domestiche o per accudire i bimbi piccoli.

Naturalmente, per tutti la difficoltà più grande da affrontare era rappresentata dalla nostalgia. Essi infatti non temevano tanto le fatiche o i sacrifici, ai quali erano, in ogni caso, avvezzi, quanto la lontananza da casa, dagli affetti, sia pur spartani, dei propri familiari, non certo dalle comodità che non esistevano comunque.

Mancava loro, soprattutto alla sera, il sorriso della mamma o la carezza della nonna o il chiassoso vociare di altri bambini proveniente dai cortivi o dalle piazzette del proprio paese.

Per questo motivo, quando era possibile, venivano affidati per la stagione a un fratello o una sorella più grandi oppure inviati a gruppi appartenenti alla stessa frazione in paesi vicini tra loro, o nei quali si trovassero impiegate donne conosciute o parenti.

 

Da QUANDO TUTI SE AVEA ‘NA VACHETA
Ricordi di una ruralità perduta, o quasi
A cura di Paolo Tormen per il Col Maòr n. 1 del 2007

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